Migliaia di profughi e rifugiati, centinaia di vedove e orfani di miliziani jihadisti, siriani, iracheni o foreign fighters. L’eredità che il sedicente stato islamico (Is) sconfitto si lascia dietro è pesantissima. Donne sole e bambini abbandonati, vittime innocenti di un conflitto che ora, dopo i traumi della guerra e dei bombardamenti, li espone al rischio di sfruttamento da parte di reti criminali o terroristiche. Minori non registrati all’anagrafe siriana che rischiano, dunque, di rimanere privi di qualsiasi diritto e di assistenza, oltre che guardati con ostilità perché figli, ma inconsapevoli, di portatori di violenza. È passato più di un mese da quando il tweet di Mustafa Bali, portavoce delle forze alleate in Siria, ha annunciato la presa di Baghuz, l’ultimo bastione in mano all’Is. Era il 23 marzo. In realtà, si continua a combattere nell’ovest della Siria mentre si cerca di avviare il processo di pacificazione e normalizzazione del paese. In ogni caso, resta il prezzo pagato per otto anni di guerra civile, soprattutto in termini di vite umane. Le cifre esposte dall’Onu durante la due giorni di colloqui sulla Siria, organizzata in Kazakhstan da Russia, Turchia e Iran, la settimana scorsa, sono spaventose: dal 2011, anno in cui, sull’onda lunga della cosiddetta Primavera araba, cominciarono le proteste degli studenti contro il governo di Bashar al Assad, le vittime del conflitto sono state oltre mezzo milione, tra le quali più di 55.000 bambini, mentre quasi la metà della popolazione siriana, che prima della guerra era di circa 22 milioni, non ha più una casa in cui vivere. Secondo gli osservatori delle Nazioni Unite, bisogna mettere a fuoco tutta la portata dell’emergenza rappresentata da una sorta di Siria fuori dalla Siria. Il numero totale dei rifugiati siriani è lievitato, anno dopo anno, fino a raggiungere la cifra di 5,6 milioni, secondo le ultime stime delle diverse organizzazioni umanitarie che, sotto l’egida della Croce rossa e dell’Alto commissariato per i rifugiati, operano nei territori devastati dalla guerra e nei paesi limitrofi. Il novanta per cento dei rifugiati siriani è scappato dal proprio paese, ma senza lasciare il Medio oriente: di questi, infatti, 3,6 milioni hanno attraversato il confine turco, per stabilirsi però all’esterno dei campi profughi approntati dal governo di Ankara.
Solo il 10 per cento dei rifugiati siriani in Turchia, infatti, ha scelto di vivere nelle zone loro riservate, mentre il resto della popolazione, fuggita da Aleppo e dalle città devastate dal conflitto, è tuttora accampata in sistemazioni di fortuna. Sono almeno un milione e mezzo i rifugiati fuggiti in Libano: un paese che non ha voluto ripetere l’esperienza dei campi profughi, dopo quelli approntati per i palestinesi, e ha cercato modalità per un’accoglienza più distribuita, con il risultato, però, che vista la sproporzione con il numero di abitanti — circa 4 milioni — i profughi si sono ritrovati in condizioni precarie, in tendopoli più o meno ufficiali, nelle quali scarseggiano viveri e medicinali. Altro paese che nel corso degli anni del conflitto ha accolto i profughi è la Giordania, dove sono arrivati circa 670 mila rifugiati siriani. Di questi, 120.000 si sono stabiliti nel campo di Za’Atari, uno dei più grandi del mondo, che è stato, tra l’altro, il primo luogo visitato dal presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella in occasione della sua visita di stato nel paese, lo scorso marzo: «L’esperienza di questo campo — ha detto in quella circostanza Mattarella — è straordinaria. È una città con una sicurezza di servizi e un’assistenza di prim’ordine, è l’esempio di come va gestito un campo profughi». Il confine con la Siria dista appena 20 chilometri, ma sul versante giordano non si combatte più ormai da parecchi mesi, e c’è quindi la possibilità di pensare al futuro.
Nel campo di accoglienza di Za’Atari, infatti, la natalità infantile è cresciuta, fino a sfiorare le 400 nascite al mese: i minori sono ora oltre la metà delle persone ospitate. Un quinto delle famiglie, tuttavia, è composto esclusivamente da madri e figli: dei padri, combattenti per la libertà o miliziani del sedicente stato islamico, non c’è traccia. Per questo l’Italia ha finanziato un progetto umanitario, l’«Oasi»: è un centro di accoglienza e di integrazione che offre assistenza soprattutto alle donne, organizzando anche corsi di formazione, laboratori di cucito e di economia domestica. Diversa, invece, la situazione in Iraq, dove i rifugiati arrivati dalla Siria sono circa 250.000: concentrati in maggioranza nelle regione del Kurdistan. Nel corso degli anni si sono integrati alla popolazione locale, emigrata verso la regione del Nord del paese per fuggire alle persecuzioni dell’Is. In Egitto invece sono stati accolti 130.000 rifugiati provenienti soprattutto dalle città siriane del Sud, mentre dal 2015, quando la crisi raggiunse il picco, sono state 1,3 milioni le richieste di asilo da parte dei profughi siriani in tutta Europa, mentre, gli Stati Uniti, tra il 2011 e il 2016, hanno accolto circa 18.000 rifugiati. Quello dei profughi e dei rifugiati siriani resta, comunque, un quadro drammatico, da qualunque angolazione lo si guardi. I minori che dipendono, ancora oggi, in tutto o in parte, dagli aiuti umanitari, sono circa cinque milioni, la metà dei quali costretti a vivere al di fuori del proprio paese. La situazione sanitaria è ancora drammatica, le condizioni igieniche, la scarsa disponibilità di acqua potabile e l’impossibilità di effettuare vaccinazioni di massa porta a frequenti episodi di colera. Nel 2018, poi, secondo il rapporto dell’Unhcr, erano ancora più di 2 milioni i minori che non ricevevano un’adeguata istruzione, anche perché un terzo di tutte le scuole siriane è stato distrutto. In otto anni di guerra, in pratica, sono andate perse due decadi di progressi nel campo dell’educazione. E in ultimo, ma non da ultimo, praticamente tutti i siriani nati dopo il 2011 non hanno conosciuto altra realtà che la guerra, con le tremende ripercussioni psicologiche che questo comporta. Sono stati strappati a un’infanzia normale.
Molti sono stati addirittura costretti a lavorare per pochi spiccioli, necessari alla sopravvivenza delle loro famiglie, o, peggio, trasformati in bambini- soldato. Un quadro drammatico, al quale va aggiunto un ulteriore elemento, ovvero le migliaia di vedove e di orfani dei miliziani jihadisti: la disgregazione dell’Is si lascia dietro esistenze distrutte di compagne e figli di miliziani locali o dei cosiddetti foreign fighters, coloro che hanno abbandonato il proprio paese d’origine in Europa o altrove per unirsi alla devastante causa di morte dell’Is. La maggior parte di questi proviene dalla Russia, in particolare dalle regioni del Caucaso. Le ultime cifre ufficiali sono state diffuse dal Cremlino nel 2017 e parlavano di 115 bambini russi tra gli 8 e i 10 anni trattenuti con le loro madri nelle carceri irachene. Secondo diverse fonti umanitarie, i numeri da fotografare oggi sono più alti: nel corso degli anni del conflitto sarebbero stati oltre quattromila i miliziani russi che hanno raggiunto Mosul e le altre città siriane nelle quali si combatteva e, adesso che la guerra è finita, sono più di duemila le loro vedove, ragazze che si erano illuse di prendere parte alla guerra santa e ora sono rimaste sole con i loro bambini. Vedove e prigioniere e, tragedia nella tragedia in questa tremenda escalation di violenza, separate in molti casi dai figli che, per la legge irachena, possono rimanere con le madri in carcere soltanto fino ai tre anni di età.
Cicatrici profonde, che resteranno sui volti, e nell’anima, di queste donne e di questi bambini, così come di tutte le vittime di otto anni di conflitto in Siria. Anche coloro che, tra i più fortunati, troveranno una nuova casa e, magari, una nuova famiglia, non potranno dimenticare gli orrori della guerra. Atroce, orrenda, efferata, su qualunque fronte la si combatta. E senza reali vincitori, ma solo vittime.
Pubblicato su “L’Osservatore Romano” il giorno 05/05/2019